di Elisa Bonacini
Insignito di Medaglia d’Onore alla memoria Arturo Di Muccio, internato militare in Germania; ha richiesto l’onorificenza il figlio Maresciallo della Guardia di Finanza (in congedo) Doriano Di Muccio residente ad Aprilia. La consegna è avvenuta il 28 gennaio durante la cerimonia per la Giornata della Memoria organizzata dalla Prefettura di Latina; è la 15esima medaglia conferita a partire dal 2011 a cittadini apriliani o, come in questo caso, a loro familiari.
Ricordiamo che la Medaglia d’Onore è conferita dal Presidente della Repubblica ai civili e militari (ed ai loro eredi) deportati ed internati nei lager nazisti dopo l’armistizio dell’Italia l’8 settembre 1943 e destinati a lavoro coatto per l'economia di guerra della Germania.
Nato il 21 ottobre del 1924 a Vairano Patenora (CE) ove è deceduto il 19 Marzo 2000, Arturo Di Muccio venne chiamato alle armi con destinazione Verona il 21 agosto del 1943, pochi giorni prima dell’armistizio. Incorporato nel 79° Fanteria fu catturato dai tedeschi il 9 settembre e deportato in Germania. Destinato dapprima a lavori agricoli per poi svolgere il lavoro che svolgeva nella vita civile, quello del calzolaio. Una vicenda la sua che lo avvicina per molti aspetti a quella di un po’ tutti gli IMI, con colpi di scena degni della sceneggiatura di un film. Denominatore comune la fame che dovettero sopportare indistintamente tutti i prigionieri nei lager nazisti. Costretti gli internati militari a lavoro coatto ed a una scarsissima alimentazione giornaliera, consistente in qualche fettina di pane, una brodaglia di (poche) verdure, la cosiddetta “sbobba”, e qualche patata. “Non immaginate – raccontava a riguardo mio papà Ernesto, che a sua volta era stato prigioniero nel Reserve Lazarett IV B di Zeithain - quelle grandi, orgoglio dell’agricoltura tedesca, ma patate di ben più minute dimensioni, per la maggior parte fradice e maleodoranti”.
Uomini indeboliti nel corpo i nostri soldati IMI, ma mai domiti, chè le vessazioni e le sevizie subite in Germania non riuscirono, se non in rarissimi casi, a far mutare, a costo della propria vita, il coraggioso NO alla collaborazione con i nazisti.
È un dato di fatto che ci stiano lasciando anche gli ultimi testimoni di quel periodo oscuro della nostra storia. Il testimonial di memoria ora passa necessariamente ai figli, ai nipoti cui spesso i deportati confidarono in esclusiva i racconti di guerra e prigionia, negando forse per pudore ai figli quella parte dolorosa del loro vissuto. Ed è la nipote Benedetta Anna Di Muccio oggi la custode dei ricordi del nonno Arturo. Ne riportiamo alcuni frammenti.
LA CATTURA
“Arrivato presso la Caserma veronese Arturo restò qualche giorno senza divisa per poi ricevere tutto il necessario il 4 settembre 1943. L’8 settembre si trovava nei pressi della stazione quando arrivò un treno dai cui finestrini tutti sventolavano fazzoletti bianchi a causa dell'armistizio del nuovo capo del governo Badoglio; Arturo non si rese conto del significato di ciò. Anche se i compagni gli consigliarono di prendere il treno e andar via, lui era deciso a fare il militare e a tornare in caserma e così fece. Per tutta la notte ci furono canti ed esultanze, mentre lui sulla sua brandina aspettava novità. Al mattino presto i tedeschi intimarono di consegnar loro tutte le armi. Fatto prigioniero insieme ai commilitoni, sotto minaccia delle mitragliatrici, fu portato alla stazione e fatto salire nei vagoni per il bestiame (45 persone per vagone). Intanto i cittadini di Verona presero ad offrire ceste di mele e vivande ai prigionieri e, proprio in quel frangente, Arturo chiese ad una signorina di affiancarsi a lei per fingersi suo fratello in modo da potersi defilare. La ragazza accettò e Arturo si cambiò rapidamente nel vagone, sostituendo la divisa con gli abiti civili, ma per la fretta dimenticò ai piedi le scarpe militari. Allontanandosi con la ragazza, ancora in stazione, un tedesco lo squadrò da capo a piedi e notò le calzature: immediatamente lo minacciò con la mitragliatrice e in un attimo, rassegnato e paralizzato dalla paura, si ritrovò di nuovo sul suo convoglio.”
IL VIAGGIO VERSO LA GERMANIA: SCHIAVI DI HITLER
“Il viaggio durò tre notti e quattro giorni, tutti ammassati, senza mangiare e senza bere e con un buco nel legno del treno per i bisogni fisiologici. Aprirono le porte dei vagoni nella tedesca Altenburg. Distribuirono i prigionieri in gruppi di circa quindici persone da destinare a vari campi di smistamento e di lavoro. Arturo fu portato in un campo ove erano numerosi granai di legno per orzo, grano e bieta, pieni di polvere. Il suo compito era girare con la forca il grano, lavoro che però non svolgeva con precisione. Una guardia che di nascosto controllava le fatiche dei prigionieri scoprendo che Arturo non faceva il dovuto, lo prese per il collo e dopo una serie di imprecazioni in tedesco gli chiese quale fosse il suo mestiere. Arturo a gesti provò invano a spiegare che faceva il calzolaio; il soldato spazientito a quel punto chiamò un collega che parlava l'italiano. Il sopraggiunto, capendo che si trattava di uno “schuster”, interpellò telefonicamente i superiori per sapere se servissero calzolai. Da Hartmannsdorf risposero di averne bisogno e così fu ordinato ad Arturo di tenersi pronto a partire e di prendere la valigetta di legno che si era portato dal paese. Il comandante gli fornì una razione di pane e qualcos'altro che doveva bastare per il viaggio. Presto sopraggiunse una guardia, in compagnia di una ragazza tedesca, che lo accompagnarono nel viaggio. Una volta arrivati al campo non si accorsero della presenza di sentinelle poste a controllo del sito, tanto che allo spaventoso rumore di carica del fucile il soldato tedesco fece a malapena in tempo a dire la parola d'ordine e un cenno di riconoscimento. Lo consegnarono alla guardia custode, la quale lo portò in una baracca di legno dov'erano altri dieci connazionali che Arturo salutò con un quasi silenzioso "Buonasera" e a cui risposero appena, timorosamente. Si sedette sulla valigetta come gli altri, perché non c'erano sedie né letti né mobili all'infuori di un armadietto di legno in cui ciascuno appoggiava la propria roba. Pian piano cominciarono a scambiare qualche chiacchiera, per conoscersi, finché non si fece nuovamente giorno. Il vano, poco sollevato dal suolo, era tiepido per via di una stufetta a carbone posta al centro. L'ambiente illuminato da una finestra a vetri e da una lampadina che scendeva con un filo dal soffitto. La mattina successiva portarono i prigionieri in stanzette contenenti dei letti a castello, assegnando a ciascuno tramite delle targhette di legno un numero di giaciglio. In ognuna delle stanzette erano sistemate dodici persone: quella di Arturo conteneva dodici calzolai, mentre in quella adiacente erano alloggiati dodici sarti. Dopo la sistemazione del luogo di pernotto, furono portati sul posto di lavoro, un vecchio palazzo di muratura a più piani con una grande scala su cui era posto un cartello contenente una frase in tedesco, in francese e in italiano che recitava più o meno così: “Chi tocca anche solo una spilla fa atto di sabotaggio".
Il compito di Arturo era quello di confezionare calzature composti da una base di legno, come quella degli zoccoli, e da un rivestimento superiore di pelle, senza lacci. Quotidianamente veniva fornito del materiale contato per confezionarne due paia.”
IL FURTO DELLE MELE PER LA FAME E L’ISOLAMENTO A DIGIUNO PER 8 GIORNI
“Essendo allenato a fare il calzolaio sin da piccolo aiutando il padre, Arturo era abbastanza veloce nel finire prima del previsto la produzione giornaliera. Così un giorno un vecchio capitano lo chiamò facendogli cenno di seguirlo nel suo ufficio e gli diede ad intendere di dover andare lì ogni mattina, mezz'ora prima di lui, per pulire l'ufficio e il piccolo bagno, sistemare la scrivania, accendere la stufa procurando il carbone e quant’altro. Non potendo rifiutarsi per molti giorni andò. Un dì, però, notò sopra un armadio la presenza di una grande cesta piena di mele. Vista la fame, dopo una certa esitazione iniziale, dettata soprattutto dal monito del cartello affisso per le scale, si convinse che prendere una di quelle mele non potesse comportare alcunché e così si servì. I giorni successivi non poteva far a meno di pensare a quella cesta e man mano prese altre mele finché ne restarono tre o quattro. Ovviamente sentendosi colpevole e in difetto, a qualsiasi chiamata del capitano, che era severo ed esuberante, Arturo tremava di paura. Un giorno lo sentì arrivare gridando verso tutti, si sentì preso per la giacca e trascinato nell'ufficio alla presenza di due donne, due impiegati dell'ufficio accanto e un sottufficiale francese preposto alla posta internazionale e alla comunicazione tra i vari campi, tutti molto seri. Arturo alla richiesta di spiegazioni circa le mele mancanti rispose che aveva fame e che non gli bastava la razione giornaliera di pane e zuppa, essendo abituato a mangiare di più a casa. L'episodio si concluse con la punizione dell'isolamento in una baracca per otto giorni, chiuso e lasciato quasi a digiuno: un giorno solo pochissimo pane e un giorno un paio di cucchiai di zuppa, alternativamente.”
LA PUNIZIONE PER AVER INDOSSATO ABITI CIVILI
“Oltre che nell'ufficio del capitano, Arturo fu obbligato a fare le pulizie nell'ufficio di un sergente maggiore austriaco (che parlava bene la lingua italiana), un tal Joseph, che si trovava all'esterno del campo. Una domenica dopo aver detto alle guardie di andare a pulire l'ufficio di Joseph e ottenuto il permesso di uscire, si cambiò d'abito: i compagni sarti gli avevano "rivoltato" la giacca, in modo che se usata al contrario potesse sembrare una giacca di una persona borghese. Inoltre riuscì a indossare delle calzature che non sembravano militari, avendo la possibilità di farsele da solo. Dopo essere uscito, però, fu cercato dal capitano: i compagni per prendere tempo inventarono delle scuse con la speranza che tornasse, mentre Arturo con l'inconsapevolezza della giovane età era in un bar. Quando fece ritorno al campo, dovendo attraversare una piccola salita, vide nei pressi del cancello d'entrata il capitano con una frusta. Vedendolo vestito da civile l'ufficiale, infuriato, gli strappò i vestiti con lo scudiscio e lo fece portare in prigione, in una cella con due letti e una finestra dalle cancellate di ferro. La mattina seguente fu accompagnato da una guardia con moschetto al comando generale in cui si trovava il tribunale militare. Gli fu chiesto perché fosse scappato e lui rispose che non si trattava di fuga ma che era uscito solamente per una passeggiata per poi rientrare. La guardia aveva tradotto in tedesco al tribunale le intenzioni bonarie del giovane e come risultato ebbe la pena di dieci giorni di isolamento con lo stesso trattamento avuto per il furto delle mele. La stessa guardia gli disse di essere stato fortunato, perché sarebbe stato sicuramente condannato ben più severamente, se non fosse stato per la buona condotta, essendo noto a tutti le sue uscite ed entrate per le pulizie a Joseph.”
IL RIENTRO DOPO LA LIBERAZIONE
“Dopo la liberazione con arrivo degli americani (molti tra loro gli italo-americani) il 5 agosto 1945 lo misero su un treno per bestiame dai vagoni scoperti. Dopo due giorni e mezzo il convoglio si fermò ai confini tra Austria e Italia. Lì fecero scendere le persone a bordo e in un vicino campo le sfamarono, le fecero lavare sotto delle docce e infine diedero loro seimila lire. Ciascuno aveva i propri documenti ed era libero. Da quel punto, tutti presero il treno per Bolzano, da cui Arturo continuò il suo viaggio, insieme alla maggior parte delle altre persone, con un "Bolzano-Roma". A Roma ciascuno prese direzioni diverse e per il giovane calzolaio fu la volta di "Roma-Napoli": interminabili le quattro ore e più che lo separavano dalla sua casa, dalla sua gente, dal suo lavoro quotidiano, dalla vita di sempre. Scese finalmente nella stazione di Vairano Scalo, s'incamminò pian piano sulla via pedemontana finché ritrovò i suoi familiari ad accoglierlo, festosi e curiosi di sapere tutto ciò che gli era capitato di vivere. L'unica cosa che avevano saputo di lui era che si trovava in Germania, informazione avuta probabilmente da alcuni bigliettini che a Verona il giovane aveva scritto e consegnato alla Croce Rossa.”
“E così si conclude quella che a tratti - sottolinea la nipote di Arturo Benedetta - può sembrare un'avventura di fantasia con aspetti che hanno dell'incredibile, ma che è invece pura... STORIA.”
La storia, questa per fortuna a lieto fine, di un internato militare italiano.
VIETATO DIMENTICARE.
Latina 28 gennaio 2019 Il prefetto Maria rosa Trio consegna la Medaglia d'Onore al figlio Doriano Di Muccio alla presenza del Sindaco di Aprilia Antonio Terra Doriano Di Muccio |
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